Il Mediterraneo è oggi, più che mai, al centro di contrapposti interessi internazionali che vedono, da un lato, un’Europa latitante perché distratta, da troppo tempo ormai, dalla guerra scatenata sul versante orientale con l’invasione russa dell’Ucraina; dall’altro lato, le grandi potenze che hanno cominciato ad investire ingenti risorse per esercitare una strategica influenza geopolitica nell’area del Nord Africa e del Medio Oriente. Si tratta della regione Mena (Middle East and North Africa) acronimo che indica, per l’appunto, la regione che si estende dal Marocco, ad ovest, attraversa la fascia nord-occidentale dell’Africa e prosegue verso l’Iran nel sud ovest. Secondo l’OCSE e la Banca Mondiale, la regione Mena necessita di oltre 100 miliardi di dollari all’anno per mantenere le infrastrutture esistenti e crearne di nuove. Agli Stati Uniti ed all’Europa, da anni, si sono sostituite altre potenze globali come, per esempio, la Cina, che, a partire dal 2013, ha investito nella Sponda Sud del Mediterraneo 50 miliardi di dollari (60 se si considera anche la Turchia), in Egitto, Marocco e Algeria, dove aziende cinesi sono impegnate in importanti progetti infrastrutturali e nel Canale di Suez. Così come la Russia ha potenziato la sua presenza in Libia con sostegno finanziario e investimenti infrastrutturali, programmando la creazione di un nuovo avamposto navale di fronte casa nostra. E ancora, Mosca ha inoltre costruito la prima centrale nucleare egiziana a El Dabaa ed investe da tempo nel Canale di Suez. In un contesto geopolitico rapidamente mutevole, l’Europa e l’Italia restano al palo. Il recente Piano Mattei lanciato dal governo italiano potrebbe rivelarsi tardivo e poco efficace rispetto alle potenze concorrenti presenti ormai da anni nell’area Mena. Eppure il Mediterraneo e le sue dinamiche rappresentano un serio problema di sicurezza nazionale, che dovrebbe spingere l’Europa ad essere protagonista. Quantomeno per il traffico di esseri umani che si può ipotizzare perdurerà per qualche altro decennio ancora e che vede le coste italiane punto di arrivo di flussi di migranti provenienti dalle più disparate regioni del mondo. In un tale contesto complesso e delicato per gli equilibri internazionali, le istituzioni italiane ed europee sembrano aver dimenticato la “guerra del pesce”, che dura da oltre settant’anni e che ha tenuto sotto ostaggio generazioni di pescatori siciliani. La guerra c’è e non possiamo ignorarlo. Sarebbe necessario e lungimirante aprire un dossier specifico per costruire un percorso diplomatico che possa garantire – finalmente – risposte concrete al mondo della pesca, che, in aggiunta, sta vivendo una profonda crisi produttiva. Sulla “guerra del pesce”, in numerosi decenni, le parole si sono sprecate, così come le dichiarazioni d’intenti; ma il mare rimane una sfida quotidiana per i pescherecci siciliani. È il mare conteso del Mediterraneo, ricco di pesci ma senza regole, con le autorità libiche, ma non solo, che passano spesso alle vie di fatto, facendo fuoco sulle imbarcazioni ed, in aggiunta, sequestrandole talvolta. C’è da chiedersi: perché non si riesce ad arginare fermare la “guerra del pesce”? Chi ne trae profitto? Chi si spende a tutela dei pescatori siciliani? La risposta può apparire semplice quanto articolata: delimitare i confini in alto mare non è come alzare un muro per definire la proprietà di un terreno. Eppure la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e introdotta a partire dal 1995 in Italia, delinea il quadro giuridico sul quale è strutturato, dal punto di vista giurisdizionale, lo spazio marittimo. E’ il trattato internazionale che definisce i diritti e le responsabilità degli Stati nell’ambito dell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse. Nel Mediterraneo, da oltre settant’anni, assistiamo passivamente alle scorribande di pirati, o militari, con ordini precisi di mirati ai natanti da pesca siciliani, spesso e volentieri bloccati in acque internazionali. Ed è da qui che origina la questione della “guerra del pesce”. I tunisini hanno chiuso un tratto di mare fuori dalle loro acque territoriali, noto con il nome di “Mammellone”, decidendo unilateralmente di vietare la pesca alla flotta siciliana senza estendere lo stesso limite ai pescherecci nazionali. La Libia, nel 2005, ha proclamato una Zona di Protezione della Pesca che si estende per 62 miglia a partire dal limite esterno di 12 miglia delle acque territoriali, inclusa la linea di chiusura del Golfo della Sirte, oltre ad aver istituito, con atto unilaterale, la zona economica esclusiva di 200 miglia marine nel 2009 senza alcuna notifica alla comunità internazionale e nel silenzio dell’Italia. Ed, ampliando il ragionamento, lo scenario che potrebbe emergere è preoccupante, perché, se tutti gli Stati rivieraschi istituissero proprie zee, non vi sarebbero più aree di acque internazionali, considerato che in nessun punto del Mediterraneo le coste degli Stati frontisti distano tra loro più di 400 miglia. Non c’è più tempo da perdere e la questione della” guerra del pesce”, all’interno di uno scenario mediterraneo complicato, liquido, di grande conflittualità, non è più rinviabile. L’Unione Europea, che esplica la politica estera per i Paesi aderenti, dovrebbe individuare tempi, modalità e procedure per la definizione di accordi di cooperazione internazionale, anche per la regolamentazione dell’attività di pesca per provare a prevenire accadimenti che potrebbero sfociare in situazioni drammatiche. La questione è squisitamente politica e l’Unione Europea non può più sfuggire al proprio ruolo di interlocutore attraverso la dimensione esterna della sua politica comune della Pesca. A seguito del sequestro, nel 2020, dei pescherecci Medinea e Antartide, durato 108 lunghi giorni, il generale Haftar ha incassato il riconoscimento internazionale da parte italiana, da spendere nel tentativo di accreditarsi nella comunità internazionale per mettere le mani sul governo di tutta la Libia ancora in guerra civile. La storia racconta che i tunisini hanno sempre utilizzato i sequestri di natanti da pesca siciliani per ottenere armi durante il periodo della guerra di liberazione dalla Francia, oppure, più recentemente, aiuti economici, know-how, aiuti in termini di infrastrutture e formazione. A tutelare i pescatori dovrebbe essere l’Italia chiedendo di porre al centro dell’agenda politica europea la questione mediterranea con nuovi interventi comunitari a sostegno della crescita dei paesi Mena e misure comuni per tutelare gli interessi delle imprese di pesca e dei pescatori siciliani. A partire dallo stop all’ attività di pesca in determinati periodi dell’anno da osservare tutte le marinerie che operano nel Mediterraneo, così come le totali giornate di pesca. Saprà il governo nazionale mostrare sensibilità al settore della pesca e i muscoli al tavolo comunitario?