Sono trascorsi dieci anni. Dieci anni da quella notte muta, quando il Mediterraneo si trasformò in un sepolcro d’acqua, accogliendo nel suo abisso 1.022 vite spezzate. Era la notte tra il 18 e il 19 aprile 2015, e un peschereccio sovraffollato partito dalla Libia si capovolgeva a circa 100 chilometri dalla costa libica, 180 a sud di Lampedusa. A salvarsi furono soltanto 28 persone. Il resto? Silenzio. Onde. Buio.
Oggi, quel numero — 1.022 — non è solo una cifra, ma un eco che rimbomba tra le pieghe della coscienza collettiva europea. Tra quei morti, si stima, c’erano tra i 200 e i 300 bambini. Piccoli, probabilmente vestiti con gli unici abiti che avevano. Alcuni viaggiavano con i genitori, altri con fratelli maggiori, altri ancora — troppi — completamente soli.
Nella stiva, dove erano stipati come merce senza volto, l’acqua è entrata come un giudice inflessibile, senza possibilità di appello. La barca si è capovolta, e il Mediterraneo ha fatto ciò che fa da anni: ha inghiottito speranze, sogni, storie. Alcuni corpi sono tornati a galla nei giorni successivi, altri non sono mai riemersi. Solo il mare sa dove riposano.
La Croce Rossa Internazionale e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni parlarono fin da subito della più grave tragedia della storia recente nel Mediterraneo centrale. Eppure, da allora, tante altre barche sono affondate.
il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella oggi è intervenuto per ricordare quella strage: “Dieci anni or sono nel Canale di Sicilia si consumò un’immane tragedia del mare, tra le più terribili che si ricordano nel Mediterraneo. I migranti morti e dispersi raggiunsero numeri spaventosi. Fra le vittime anche decine di bambini.
Erano persone che disperatamente cercavano una vita migliore, fuggendo da guerre, persecuzioni, miseria. Persone finite nelle mani di organizzazioni criminali, che li hanno crudelmente abbandonati nel pericolo.
La Repubblica italiana ricorda quelle tante donne e tanti uomini, molti destinati a restare senza nome.”
A dieci anni di distanza, cosa è cambiato? Forse solo la nostra capacità di indignarci. Forse solo la frequenza con cui ci voltiamo dall’altra parte. Ma chi ha perso un figlio, un fratello, una madre in quel naufragio, non ha mai potuto voltare pagina. Per loro, il tempo si è fermato in quella notte umida e nera.
Oggi, dieci anni dopo, ricordare non è solo un dovere morale. È un atto di giustizia. Perché dietro ogni cifra c’era una vita: una madre che cantava, un bambino che sognava un pallone, un ragazzo che sperava di studiare, un padre disposto a tutto per un futuro migliore per i suoi figli.
La storia li ha traditi. Ma noi possiamo ancora scegliere se tradire anche la loro memoria, oppure custodirla, raccontarla, farla vivere, affinché non siano stati solo un numero nella statistica della vergogna.
Roberto Rubino